di MASSIMO DI CENTA

L’essenza del calcio è il gol e quindi si finisce quasi inevitabilmente per parlare di bomber, lasciando piccoli spazi a chi i gol dovrebbe evitarli, ovvero i portieri. Un ruolo che pur di importanza fondamentale a tutti i livelli è considerato, chissà perché, marginale. Per questo abbiamo provato a scambiare quattro parole con Sergio Mestriner, preparatore dei portieri del Tricesimo, uno che vive il ruolo a 360 gradi e che soprattutto cerca di “formare” i ragazzi al ruolo, sia tecnicamente che mentalmente.

Mestriner, classe 1965, ha giocato essenzialmente nel Villorba, squadra del suo paese. La sua carriera tra i pali non è durata molto, è finita quando si è arruolato nei Carabinieri, incarico che non gli permetteva allenamenti costanti e regolari. Eppure di quel ruolo è rimasto innamorato, tanto da farne una vera e propria “missione”.

«Se c’è una persona alla quale devo molto – afferma – questa è Giuseppe Filigoi, conosciuto ai tempi della mia collaborazione col Donatello. E’ stato lui a farmi scoprire l’importanza del ruolo di preparatore. Decisi allora di frequentare il corso AIAP (associazione allenatori portieri) nel quale conobbi Loris Di Giorgio».

Anche Di Giorgio, in qualche modo ha contribuito alla tua formazione?

«Assolutamente sì. Lui a un certo punto della sua carriera decise di provare l’esperienza del campionato Carnico e mi offrì la possibilità di approcciarmi a questo ruolo di preparatore. L’impegno non era pressante e si conciliava con la mia disponibilità».

Quando giocavi si diceva di te che eri un portiere atipico.

«Un allenatore che avevo avuto nelle giovanili era uno avanti con i tempi: ci faceva giocare con una pseudo zona e quindi dovevo adattarmi ad una serie di situazioni tattiche che prevedevano anche fasi lontano dalla porta. Senza volerlo, quindi, penso di potermi considerare un precursore di quello che poi i portieri sarebbero diventati negli anni. Qualcuno mi ribattezzò “Higuita” ...».

E nel tuo ruolo di preparatore hai portato questo retaggio?

«Diciamo che ho messo insieme tutte queste esperienze per provare ad interpretare il mio impegno in maniera totale, nel senso che di un portiere si allena non solo la tecnica, ma anche la mentalità, l’atteggiamento e il modo di stare in campo».

Da che punto sei partito?

«Dal fatto che un portiere è sempre stato ritenuto un ruolo fondamentale, importante ma ci sono voluti anni per capire che andava allenato in modo particolare. Una volta si diceva che per fare il portiere bisognava essere pazzi e invece si è scoperto che un portiere deve essere pensante. Uscire sui piedi di un attaccante deve essere un gesto di coraggio, non di pazzia. Poi è chiaro che le regole che sono state imposte (il retropassaggio, ad esempio) o giocare a zona hanno profondamente mutato il modo di interpretare il ruolo».

Qual’è il compito più difficile quando si inizia ad allenare un bambino?

«Farlo appassionare al ruolo, spiegarne la peculiarità. Per i bambini l’allenamento rappresenta comunque un momento di aggregazione coi compagni di squadra e staccarlo dal gruppo per allenarlo singolarmente è un momento delicato. Poi c’è da affrontare il problema delle società: una volta ti davano quello meno dotato tecnicamente o un po' sovrappeso da mettere in porta, ora, per fortuna, c’è un materiale più selezionato. Poi, anche il ruolo segue un po' le mode. L’esordio di un portiere giovane in prima squadra crea uno spirito d’emulazione che fa bene al ruolo. Vedere bambini con la maglia di Donnarumma, per fare un esempio, è sempre più frequente e questo naturalmente incoraggia i giovanissimi a fare il portiere».

E sul fatto del portiere fisico, alto di statura, cosa pensi?

«Beh, chiaramente, la stazza fisica offre la possibilità di occupare più spazio all’interno della porta, ma una statura sul metro e 85, abbinata ad una buona reattività credo che sia la soluzione ideale. Chiaramente il primo concetto da sottolineare è che il portiere è l’unico che in campo può usare le mani, quindi i fondamentali dovranno concentrarsi soprattutto sull’uso degli arti superiori. Dopo si cura il resto».

Nel panorama del calcio giovanile dilettantistico in Friuli hai visto qualche buon prospetto?

«A Tricesimo abbiamo tre giovani interessanti, Andrei Ionut, classe 2003, in prestito al Venzone. Tecnicamente è già molto bravo, deve solo migliorare mentalmente. Poi lasciatemi fare i nomi di Francesco Ganzini, un 2002, Mattia Forgiarini, 1999, e Matteo Tullio, 2003. Un altro che mi ha colpito è Davide Millo, della Virtus Corno, un 2002 che non ha un grande fisico, ma una personalità importante in relazione all’età».